houselife


Per una serie di eventi di cui vi eviterò la narrazione – ho già contattato Jonathan Coe affinché ne faccia una versione 2012 dei Winshaw (o anche Guzzanti perché scriva I Canti dell’Olgiata – Eredità Edition) – mi trovo da qualche mese a centinaia di chilometri dai miei affetti, e cioè il router fastweb, il giapponese Genkai 2, il thai Isola Phuket, la trattoria romana Emilio e la pasticceria Cake and the city. Il problema non si porrebbe (in forma così urgente) se mi trovassi nelle vicinanze di un qualsiasi altro centro altamente urbanizzato, dove chiedere la cocacola light in un bar non comporta fare lo spelling del nome e spiegare che si tratta di una cocacola senza zucchero, dovendo poi aggiungere che sì, la cocacola normale contiene zucchero. Non è tanto per la cocacola light in sé, che si trova facilmente al supermercato anche se a prezzi più alti di quelli del Tigre di viale Liegi, manco la importassero con le navi cargo direttamente da Atlanta. La faccenda è piuttosto riconducibile a una problematica magistralmente espressa in Sex and the city (abbiamo già detto che per ognuno di noi ci sono due o tre serie che hanno espresso tutto lo scibile umano, per me si tratta di satc e dei Simpson) nella stagione in cui Miranda si trasferisce a Brooklyn: you can take the girl out of the city, but you can’t take the city out of the girl. Ora io non so quanto ancora dovrò trattenermi a Moncul- qui, dove anche i Nuvenia sono un acquisto fuori dal comune (letteralmente fuori, infatti il supermercato più vicino, quello dove trovi non dico tutto ma almeno le marche delle televisioni, si trova a dieci chilometri) e dove quando rispondo che il mio cane si chiama Birkin, mi chiedono se è perché “è birikina”. Posso solo cercare di resistere, di fare tesoro di questa esperienza, ammesso che ci sia qualcosa di cui fare tesoro a parte le nuove bestemmie scoperte, e nel frattempo avrei un paio di cose da dire agli esponenti del terziario avanzato che si intrattengono sognando la semplicità e la tranquillità della vita contadina.

(prima di tutto, AIDAN CACCIA IMMEDIATAMENTE QUELLO SCOIATTOLO.)

– In campagna non c’è pace, c’è IL NIENTE. Se dal caos delle vostre metropoli sognate la quiete e la natura, vi invito a seguire la saggezza popolare dei quadretti su pinterest (“if you don’t like where you are change it, you are not a tree”) e a venire qui, in fondo se non siete drogati di cocacola light come me non avrete problemi di adattamento, suppongo che nel vostro amore per la campagna siano già inclusi la consapevolezza della terra, del fango, delle blatte, dei lombrichi arrotolati, del caldo morte d’estate e del freddo becco d’inverno, del buio inevitabile e totale dopo le 18 (e presto dopo le 16), della lontananza nel tempo e nello spazio di qualunque cosa esista nel mondo che conoscete – dagli aperitivi al brunch, dai mezzi pubblici alle edicole fornite (no, non sto parlando di Monocle, penso più a roba tipo Casafacile o La Settimana Enigmistica), dal pagamento col bancomat alle visite mediche per appuntamento. Di braccianti agricoli ne servono sempre tanti e un appartamento in affitto (intero, sì, un appartamento intero) da queste parti costa 350 euro al mese, non vedo cosa ci fate ancora lì a imprecare perché la rossa passa con due minuti e cinque secondi di ritardo o perché la A è ferma tra Ottaviano e Cornelia.

– Il lavoro manuale, quello che “almeno non te lo porti a casa” è UN MASSACRO. Non te lo porti a casa perché quando torni a casa cadi sul letto come corpo morto cade. Non sto lavorando nei campi, ma quando alle undici di mattina ci sono già (e ancora oggi) 30 gradi non serve starci, sotto alla plastica di una serra, piegati in due a tirare su o spingere giù roba, per capire che è un’ammazzata. Basta guardare e sudare per interposta persona. Ho visto gente trasportare mattoni ad agosto, e ho ringraziato Iddio per aver inventato il concetto di sfruttamento del lavoro applicato allo stare seduti su una sedia ergonomica in un ufficio con l’aria condizionata.

(Vorrei andare in giro a urlare DOWNSHIFTING CAGATA PAZZESCA ma i 92 minuti di applausi me li dovrei fare da sola, perché non mi capirebbe nessuno.)

Se siete davvero capaci di fare a meno del cibo a domicilio, dei cappuccini preparati come Dio comanda e del bloody mary (io no, non so se si è capito), vi prego di contattarmi: facciamo a cambio. Ho bisogno dello smog, dei negozi assortiti, dei supermercati grandi, del traffico, del casino, delle bestemmie per il parcheggio, dei film al cinema in lingua originale, dei ristoranti etnici. E poi ho la fobia degli insetti, lucertole e gechi mi terrorizzano, e non sopporto i trattori cingolati alle sei di mattina. Ma magari è un limite mio che non so godermi la vita, eh.

Nel frattempo, mentre aspetto le vostre numerose candidature, applico il metodo “non ci resta che piangere” e nei miei discorsi inserisco quanti più riferimenti possibile alla civiltà, cercando di convincermi che quando esco dalla porta troverò un imbecille in seconda fila che esce dal bar con le briciole di cornetto addosso mentre la macchina bloccata dal suo suv strombazza da quindici minuti, invece di un tumbleweed che rotola silenzioso nella steppa, ricordandomi che tra me e il prossimo chicken tikka masala ci sono ancora un po’ di giorni.

Vent’anni fa esatti usciva Hanno Ucciso L’Uomo Ragno, uno dei dischi più importanti della mia vita, inutile negarlo. Avevo 12 anni e gli 883 sono uno dei pochi gruppi che non ho ascoltato postumi. Ho voluto bene a HULUR, l’ho consumato, ballato e imparato a memoria (nella sua copia legale di backup dell’epoca, su nastro riregistrato sopra a, vista l’età che avevo, probabilmente fivelandia). Uso il termine “imparato a memoria” e non “cantato” apposta: esattamente come altri Dischi Fondamentali, c’erano cose che solo anni dopo ho capito che cazzo volessero dire, questo non mi ha però impedito di cantarle con convinzione, anche quando oltre a non decodificarne il senso non ne capivo neanche l’esatta forma. Espressioni oscure, di origine settentrionale, o tecnicismi da gente che usciva di casa probabilmente un po’ più spesso di me. Per fare qualche esempio:

  • non me la menare
  • batterista di trash
  • gin tonic (non sto scherzando)
  • blues degli Stones
  • margaritas (cfr. gin tonic)
  • una bella storia
  • paranoica
  • deca
  • l’automatico
  • Ticino
  • per il corso a far le CHE? (in vent’anni al karaoke me la sono sempre cavata con la riproduzione fonetica.)

Deca e Ticino come i testi dei Nirvana inventati con traduzioni letterali a fronte nei libri comprati alle bancarelle. Oddio, i modi di dire inglesi e americani ci ho messo un po’ di più ad assimilarli, ma non è questo, è la fiducia con cui canti anche se non capisci, perché istintivamente senti che sono cose che ti appartengono, anche se non hai mai messo piede, né mai lo metterai, in una sala giochi, soprattutto perché l’unica della città, il “Milleluci”, è nota piazza di spaccio, e tu lì non hai il permesso di andarci neanche con la scorta militare, e poi comunque anche le tue amiche ti hanno detto che è pieno di malacarne.

Le traduzioni dei libri comprati alle bancarelle, per inciso, sono solo leggermente meglio di quelle del paginone centrale di Tutto Musica e Spettacolo. E a proposito di Tutto Musica e Spettacolo, lo dovrei annoverare tra le letture che più mi hanno segnato, visto che di “Sulla Strada” non mi ricordo quasi un cazzo mentre dell’intervista agli 883 quasi tutto, compreso il fatto che la Harley 883 era l’entry level, mentre il top di gamma era l’Electra Ultra Glide che costava trentadue milioni di lire.

Io che sfogliavo le pagine di Tutto Musica e Spettacolo sognando gli Stati Uniti e i concerti e uscire di casa la sera. Quando ci penso mi vengono i lucciconi: quant’ero imbecille, quant’ero impreparata, quant’ero ingenua, quant’ero pischella. (Quant’ero meglio.)

L’Uomo Ragno vent’anni fa è stato ucciso per donare la vita eterna alla nostra pischellaggine. E noi per questo gli saremo sempre grati.

 

non credo ci sia bisogno di un titolo.

ringrazio mio padre, che ha comprato questo libro nel 1943 (conoscendolo, sicuramente l’ha fatto perché era un bestseller e poi non l’ha manco aperto, ma questo non ha importanza. il magnifico oggetto fotografato qui sopra ha attraversato quasi indenne 68 anni, per poi arrivare a poggiarsi sulla mia panza nelle notti dell’ultimo quasi-anno – lo so, ci ho messo un botto, ma un po’ è che ho letto quattro pagine al giorno, un po’ è che lo facevo apposta. )

 

 

volevo fare gli auguri alla signora che quando il laccetto del canovaccio si rompe lo ripara ricucendolo come se fosse la cosa più importante dell’universo. alla signora che quando a ventidue anni me ne sono andata a Milano mi ha detto “non portarti questo copriletto, c’è una macchia (era una macchia microscopica) portati quell’altro”. alla signora che mi ha regalato il mio primo bellissimo filo di perle, io che ho passato tutta la post-adolescenza pensando che non esistessero altre calzature a parte gli anfibi, e sbeffeggiando il filo di perle con frasi come “non mi avrete mai”. alla signora che mi risponde al telefono anche se non la chiamo da giorni, quando ho bisogno di sapere come si fa la pasta con le sarde. alla signora che mi chiama quasi una volta al giorno per sapere come sto, e io non riesco a capire che bisogno ci sia di sapere come sto oggi visto che già sa come stavo ieri, e le rispondo male, e non mi manda mai a quel paese, mentre me lo meriterei abbestia. alla signora che due giorni prima che vada a trovarla mi chiama per sapere cosa voglio mangiare. alla signora che, dopo che gliel’ho detto, corre a prepararmi le polpette col sugo. alla signora che da piccola mi diceva “fai come vuoi” e io andavo in crisi. alla signora che, da più grande, mi diceva “so che andrai benissimo” e io andavo ancora più in crisi. alla signora che, a me che ho 31 anni e che dovrei essere una donna fatta e finita, chiede “ti serve qualcosa?” alla signora i cui abbracci in genere evito, perché non so perché, ma sono così schiva. alla signora che ho passato la vita a criticare. alla signora che alla mia età già aveva fatto carriera e manteneva metà della sua famiglia d’origine. alla signora con le borse più belle del mondo. alla signora col mio stesso numero di scarpe e quei bellissimi stivali anni ’70 di suede che ancora sono bellissimi. alla signora che trent’anni fa sgambettava per Roma col tacco 11, mentre la figlia all’età sua si porta le ballerine in borsa e dopo un quarto d’ora già soffre. alla signora che viene a Roma per vedersi il centro serena. alla signora che mi ha insegnato i gioielli, le pietre, guardando il centro serena. alla signora che sa i mobili in francese. alla signora che legge Bravacasa, Casaviva e Casafacile. alla signora che non leggerà mai questo post, perché la figlia è fatta com’è fatta, e non glielo farà leggere mai.

auguri, mamma.

1: Irrompere in un bagno a Cagliari.

2-10: Vedi n. 1.

colgo l’occasione per parlare di una cosa che per me non è affatto very simple: scegliere. questo è il motivo principale, a parte il risparmio economico, per cui in genere aspetto i saldi. i negozi pieni di nuove collezioni mi danno la vertigine, mi viene la sindrome di Stendhal, mi aggiro in trance in mezzo agli scaffali incapace di decidermi per un vestito o per un altro, come se da quella scelta dipendesse la mia esistenza, perché c’è sempre un dettaglio, in qualsiasi abito, che me lo fa sembrare fondamentale, imperdibile. devo averlo! no, aspetta, devo avere anche quello! e quell’altro! l’incubo delle commesse.

perciò, quando mi è stato chiesto di scegliere qualcosa da provare dal catalogo primavera-estate Verysimple, ho dovuto mettere su una specie di campionato con le qualificazioni, i quarti, le semifinali, eccetera.

una cosa ce l’avevo chiara: magliette e vestiti. e dopo un’attenta analisi di decorazioni, perline, disegni, stampati, maniche, lunghezze, colori (tutto presente in quantità infinita), i tre finalisti del mio personale xfactor sono stati questa maglietta (oddio, la chanel rossa! con la tracolla VERA! ma non è adorabile?) questa canottiera (ALTRE BORSE! svengo.) e questo vestito/camicione (i pois! la cintura! altre perline!)

da brava cronica indecisa, spulciando di nuovo il catalogo mi sono resa conto che avrei voluto anche la giacchetta di felpa (COME HO FATTO A FARMELA SFUGGIRE?) ma è la mia condanna, le scelte onnicomprensive non esistono e prima o poi lo capirò, forse anche al di fuori dell’abbigliamento. speriamo.

le scelte che mi sono venute facili, invece, sono state quelle in merito alle sorti dei protagonisti della campagna su youtube: è una storia interattiva in cui si può decidere cosa far fare ai due innamorati. li ho fatti litigare in tutti i modi possibili e immaginabili, esattamente come ha fatto la fujiko, ma poi ho ceduto al mio cuore di marshmallow e l’amore ha trionfato. una campagna divertente, girata con attori non professionisti, selezionati online, dall’effetto molto spontaneo e quasi user generated.

ma torniamo alle scelte difficili: i capi. sono arrivati il giorno di san valentino, e nello scartarli sono rimasta piacevolmente sorpresa: nonostante l’apparenza molto “giovane” (oh, sono anziana io, eh.) li ho trovati davvero ben fatti, ben rifiniti, confezionati con cotone niente male. e massimo rispetto alle taglie, quelle vere. non ne posso più di S-M-L. porto la 44, voglio la 44.

l’unico appunto che mi sento di fare riguarda i prezzi. sicuramente giustificati dalla fattura dei capi e dall’attenzione al dettaglio (era un po’ che non vedevo decorazioni così rifinite) ma forse un po’ alti per un pubblico giovane, che non sempre ha dei budget adatti.

comunque la tshirt con la chanel rossa, già immortalata sul mio twitpic, è stata dichiarata vincitrice assoluta del mio xfactor diventando il primo indumento ufficiale signoramaria spring summer 2011. complimentoni!

e nel frattempo ho capito che mi viene più facile – molto più facile – scegliere tra una litigata e un bacio che tra una maglietta e l’altra. lesson learned ;) e grazie, Verysimple.

dopo mesi di pdf imbarazzanti, finalmente una cosa bella. è un esperimento letterario-fotografico, e hanno scritto e scattato tutte persone che conosco, alcune di loro sono proprio amichi amichi. è un gioiellino su Roma, e se pensate che quello che ci mancava era giusto l’ennesima autocelebrazione megalomane da caput mundi/mastahz of ze iuniverz, vi sbagliate. questa qui è una Roma diversa, vista e scritta con occhi e parole diverse. perché è vero, Roma è un pasticciaccio, ma è un pasticciaccio meraviglioso. come le nostre vite.

Quer Pasticciaccio bello

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